Bob Dylan: differenze tra le versioni

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== Andrea Monda su Avvenire ==


Tratto da https://www.avvenire.it/agora/pagine/dylan
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L’iperbole per cui non c’è testo di Dylan che non abbia almeno un riferimento biblico, più o meno esplicito, non è poi così iperbolica come è dimostrato da questo primo meticoloso e ponderoso volume di Giovannoli che rappresenta un unicum non solo in Italia ma anche all’estero. L’ennesima prova del nesso vitale tra le canzoni di Dylan e il testo biblico sta proprio nell’omissione che Dylan ha compiuto nel citare le sue fonti principali all’interno del discorso ufficiale per il Nobel: ha infatti menzionato la musica di Buddy Holly e poi tanta poesia, in particolare John Donne, soffermandosi su tre libri per lui fondamentali, Moby Dick, Niente di nuovo sul fronte occidentale e l’Odissea. La Bibbia non l’ha citata, proprio perché non è un “altro” libro a fianco di questi, ma molto di più, parafrasando Shakespeare (usando così un’immagine cara allo stesso Dylan): la Bibbia è «la stoffa con la quale sono fatti i suoi testi». E non solo e non tanto la Bibbia ebraica, come si potrebbe pensare data l’origine semita di Robert Allen Zimmerman, nato da Abraham e Betty a Duluth il 24 maggio 1941, ma soprattutto la Bibbia cristiana, più precisamente la King James Version, la Bibbia di Re Giacomo che, come ricorda Northrop Frye, è il Grande Codice della letteratura occidentale. Antico e Nuovo Testamento queste sono le due parti del grande codice dylaniano, un codice oggi più accessibile grazie all’opera di due seri e competenti studiosi italiani.
L’iperbole per cui non c’è testo di Dylan che non abbia almeno un riferimento biblico, più o meno esplicito, non è poi così iperbolica come è dimostrato da questo primo meticoloso e ponderoso volume di Giovannoli che rappresenta un unicum non solo in Italia ma anche all’estero. L’ennesima prova del nesso vitale tra le canzoni di Dylan e il testo biblico sta proprio nell’omissione che Dylan ha compiuto nel citare le sue fonti principali all’interno del discorso ufficiale per il Nobel: ha infatti menzionato la musica di Buddy Holly e poi tanta poesia, in particolare John Donne, soffermandosi su tre libri per lui fondamentali, Moby Dick, Niente di nuovo sul fronte occidentale e l’Odissea. La Bibbia non l’ha citata, proprio perché non è un “altro” libro a fianco di questi, ma molto di più, parafrasando Shakespeare (usando così un’immagine cara allo stesso Dylan): la Bibbia è «la stoffa con la quale sono fatti i suoi testi». E non solo e non tanto la Bibbia ebraica, come si potrebbe pensare data l’origine semita di Robert Allen Zimmerman, nato da Abraham e Betty a Duluth il 24 maggio 1941, ma soprattutto la Bibbia cristiana, più precisamente la King James Version, la Bibbia di Re Giacomo che, come ricorda Northrop Frye, è il Grande Codice della letteratura occidentale. Antico e Nuovo Testamento queste sono le due parti del grande codice dylaniano, un codice oggi più accessibile grazie all’opera di due seri e competenti studiosi italiani.
== E Bob Dylan incontrò Cristo, di Marco Ventura ==
Il 17 novembre 1978 Bob Dylan è in concerto a San Diego. Qualcuno dal pubblico lancia sul palco una piccola croce d’argento. Il cantautore si china, la raccoglie, la conserva. La notte seguente, nella sua stanza in un hotel di Tucson in Arizona, Dylan si fruga in tasca. Trova quella croce; la mette al collo. E incontra Gesù. Seguono la trilogia gospel, le predicazioni del Vangelo durante i concerti, l’annuncio dell’Apocalisse in un mondo sempre più analfabeta di Dio: «Sappiamo che il mondo sarà distrutto. Lo sappiamo bene. Gesù instaurerà il suo Regno a Gerusalemme per mille anni, nel quale il leone e l’agnello giaceranno insieme. L’avevate mai sentita questa cosa? Mi piacerebbe sapere quanta gente ci crede davvero».
La conversione del futuro premio Nobel, poco meno di quarant’anni fa, è al centro della psicobiografia di Dylan pubblicata da Oxford University Press negli Stati Uniti all’inizio dell’anno e in uscita a fine mese per il mercato britannico e europeo: Light Come Shining. The Transformations of Bob Dylan («Luce che arriva splendente. Le trasformazioni di Bob Dylan»). Per l’autore, lo psicologo scrittore americano Andrew McCarron, la conversione al cristianesimo segue un copione fondamentale nella vita dell’artista, già vissuto in occasione della crisi del 1966, quella che coincise con il misterioso incidente di motocicletta, e che un decennio dopo la rinascita da cristiano si sarebbe riproposto in quel bar di San Rafael, in California, dove nel 1987 Dylan sperimentò una nuova trasfigurazione in seguito alla quale ritornò a produrre musica.Di quel copione, Andrew McCarron descrive le fasi. Una crisi esistenziale, fisica e creativa che sprofonda il cantante nel senso di un imminente pericolo, nella perdita di identità e nella paura della morte; l’aggrapparsi alla musica dell’adolescenza, ai suoni e alle parole che hanno formato il giovanissimo Robert Zimmerman (vero nome di Bob Dylan), al destino che lo ha sempre spinto verso la più autentica realizzazione di sé; e infine la rinascita e la trasformazione di un uomo che ritrova la direzione.La struttura del copione si reitera nelle tre grandi crisi ed è espressa dalle canzoni che McCarron individua come rappresentative di ciascuno dei grandi momenti di passaggio, e il cui particolare significato è documentato dalla speciale attenzione ad esse riservata dallo stesso Bob Dylan. I Shall Be Released del 1967, In the Garden del 1979 e Where Teardrops Fall del 1989 testimoniano lo smarrimento, la caduta, la paura, e poi la risalita, il ritorno alla coscienza del proprio destino, la rinascita conseguente.Se il tema religioso è decisivo nella conversione al Vangelo dell’ebreo Bob Dylan, esso è tuttavia fortemente presente anche negli altri due momenti chiave. La rinascita dopo l’incidente di moto del 1966 è, con le parole dello stesso Dylan, un’esperienza di «trasfigurazione» come quella di Gesù nel Vangelo di Matteo, il preferito dall’artista. Le tre canzoni, scrive McCarron, si richiamano l’una all’altra e narrano una storia pervasa di «ispirazione biblica» che rispecchia la stessa «frastagliata esperienza di lotta, destino e trasformazione» vissuta da Dylan. Il tema religioso è anche fondamentale nel ritorno costante alle canzoni che l’adolescente Robert ascoltava alla radio o nei giradischi portatili degli anni Cinquanta, che un Dylan più maturo descrisse come il suo «vocabolario» e il suo «libro di preghiere».In un’intervista sulla sua religiosità concessa al «New York Times» nel 1997, Bob Dylan spiegò come tutto risalisse proprio a «quelle vecchie canzoni»: «Credo nel Dio del tempo e dello spazio. Ma se davvero me lo chiedono, d’istinto mi volto indietro e penso a quelle canzoni. Credo in Hank Williams che canta I Saw the Light . Anche io ho visto la Luce». Dunque, commenta McCarron, Hank Williams e gli altri «vecchi cantanti» trasmisero certo a Bob Dylan un modo di suonare la
chitarra o una tecnica vocale, ma lo immersero anche in un mondo rurale in cui gli unici libri in casa erano la Bibbia di re Giacomo e l’ Almanacco del contadino , in una cultura americana profondamente influenzata dal risveglio evangelico ottocentesco, e gli insegnarono soprattutto come «orientarsi nel mondo».
McCarron dichiara di non volersi impegnare in una delle tante ricostruzioni enciclopediche della vita dell’icona. Non vuole essere uno dei mille dylanologi con l’ossessione del dettaglio. Usa la tecnica narrativa della psicobiografia, avvolge il lettore in una trama fittamente documentata e argomentata, per avvicinarsi all’essenza. Le trasformazioni di un Dylan proteiforme e mai statico, conclude McCarron, rispondono alla preoccupazione incessante di essere fedele al proprio destino; alla paura, espressa da Dylan stesso, di non realizzare ciò cui si è chiamati: «Quanta gente non riesce a diventare ciò che avrebbe dovuto essere. Sono tagliati fuori. Se ne vanno per un’altra strada. Succede molto spesso. Tutti conosciamo gente a cui è accaduto. Li riconosciamo per strada». A lui no, a Bob Dylan non è accaduto. «Dylan lascia intendere di non sentirsi come loro», scrive McCarron: «Egli è uno dei pochi trasfigurati».In questa luce, la conversione del 1978 non è un episodio isolato, né tanto meno l’irruzione improvvisa di una ispirazione religiosa in una vita fin lì insensibile a Dio. Non soltanto di riferimenti religiosi è disseminato il percorso artistico di Dylan, che del resto etichettò come opera pionieristica di «rock biblico» il suo primo album dopo l’incidente di moto, John Wesley Harding del 1968. Molto più significativamente, sostiene McCarron, l’elemento religioso è parte integrante del copione che accompagna le grandi cesure della vita del cantante: la perdita di scopo e di identità che lo rende vulnerabile al pericolo e alla morte, la risoluzione della crisi attraverso il recupero delle canzoni della giovinezza, la rinascita con un rinnovato senso di scopo e di sé.Il copione si rinnova nel momento della conversione, quando pesano esperienze religiose di Dylan come la frequentazione del gruppo Jews for Jesus, l’esposizione alla New Age californiana, e la stessa esperienza di discendente di ebrei fuggiti dalla persecuzione nell’originaria Lituania. Il fulcro della trasfigurazione, stavolta, è Gesù; nel cui nome Bob Dylan nasce ancora una volta. Born again Christian : «Ti svegli un giorno e sei rinato, sei divenuto un’altra persona. Se ci pensi fa paura. Accade sul piano spirituale, non su quello mentale». Non è la prima rinascita, e non sarà l’ultima, di un uomo che si è tante volte trasfigurato per essere fedele al suo destino.

Versione delle 12:39, 31 ago 2020

Andrea Monda su Avvenire

Tratto da https://www.avvenire.it/agora/pagine/dylan

a cura di Andrea Monda

Un libro per dylaniani e non, ma comunque tutto da leggere è dunque La Bibbia di Bob Dylan di Renato Giovannoli (Ancora. Pagine 378. Euro 26,00). Il volume è il primo di una trilogia che suddivide in tre parti la lunga e non ancora terminata parabola artistica del cantautore del Minnesota. Ai dylaniani di provata fedeltà, a cominciare dal suo mentore italiano Francesco De Gregori, invece è assolutamente consigliato il bel libro antologico Bob Dylan (Hoepli - nella collana “La storia del rock. I protagonisti. Pagine 204. Euro 17,00). Curato da Salvatore Esposito, si tratta di un vero e proprio scrigno editoriale, - impreziosito dalla prefazione di Alessandro Portelli e la postfazione di Alberto Fortis - corredato da una marea di curiosità, aneddoti e un meraviglioso apparato fotografico che ripercorre tutte le tappe di colui che come pochi altri artisti americani ha saputo raccontare il Paese a strelle e strisce. Un poeta ammirato anche dai grandi epigoni della beat generation, come Allen Ginsberg il quale ascoltando le prime prove musicali di Dylan disse: «Ha portato la poesia nei jukebox».

Il 27 dicembre 1967 Bob Dylan pubblica l’album John Wesley Harding, il «primo disco di rock biblico» secondo la definizione che lo stesso cantautore darà successivamente a questo album di musica country. Era la prima volta che veniva usata una tale definizione. Eppure di “rock biblico” Dylan ne aveva già prodotto parecchio a partire dai primi anni Sessanta, da quando aveva cominciato a incantare il mondo con la sua musica e la sua inconfondibile voce. Questo «rock biblico», la sua natura, la sua estensione, i suoi confini, è il tema del saggio di Renato Giovannoli La Bibbia di Bob Dylan (Ancora, pagine 378, euro 26,00).

Questo primo volume tocca la produzione dal 1961 al 1978 (e porta come sottotitolo Dalle canzoni di protesta alla vigilia della conversione), il secondo, che uscirà il prossimo autunno, comprende il decennio 1978-1988 ( Il periodo “cristiano” e la crisi spirituale) mentre il terzo volume, previsto per la primavera del 2018, arriva fino al 2012, cioè fino a Tempest, per ora l’ultimo album con testi originali di Dylan, con il titolo Un nuovo inizio e la maturità. Fino al 2012 arriva anche il terzo volume delle Lyrics tradotte da Alessandro Carrera (Feltrinelli. Pagine 454. Euro 20,00) come continuazione della precedente monumentale opera in unico volume che però si era fermata al 2002. La concomitanza temporale dell’uscita di questi due volumi è favorevole anche perché incrocia un altro evento, il conseguimento del premio Nobel da parte di Dylan che i primi di giugno ha consegnato anche il discorso ufficiale richiesto dal regolamento del premio e che la segretaria dell’accademia, Sara Danius, ha definito «discorso straordinario » ed «eloquente».

Insomma giunto a 76 anni Bob Dylan non smette di stupire e di far parlare di sé, magari continuando a spaccare il mondo in fan incalliti e detrattori scatenati. I due studiosi italiani, Renato Giovannoli e Alessandro Carrera, sono dei fan ma non solo, come spiega Carrera nel saggio introduttivo al primo volume dell’opera di Giovannoli, opera «la cui crescita ho seguito nel corso degli anni grazie all’amicizia che mi lega al suo autore e che è nata proprio dal comune interesse per Dylan. Nessuno di noi è solamente un fan, anche se un po’ lo siamo. Siamo venuti per studiare Dylan, non per celebrarlo ed è passato così tanto tempo da quando abbiamo iniziato a occuparci di lui che non sappiamo più se possiamo ancora mantenere una certa distanza critica». La passione per Dylan si avverte in queste due trilogie che però restano due grandi opere di studio, serio e approfondito e quanto mai documentato. L’opera di traduzione da parte di Carrera è a dir poco preziosa per il grande pubblico italiano, anche se oggi, dopo la vittoria del Nobel, il rischio di “ridurre” Dylan a poeta è più alto di ieri, per fortuna lo stesso cantautore nel succitato discorso ha precisato l’ovvia verità che i suoi sono testi di canzoni, creati per essere quindi suonati e cantati. D’altra parte La Bibbia di Bob Dylan di Giovannoli, l’intuizione è sempre di Carrera, è un testo che vale in entrambi i sensi: «Non è solo la guida più completa alla Bibbia secondo Bob Dylan, o a Bob Dylan secondo la Bibbia. […] Tante introduzioni sono possibili a Dylan: musicali, poetiche, sociologiche, politiche. Ma la Bibbia è l’accesso privilegiato».

L’iperbole per cui non c’è testo di Dylan che non abbia almeno un riferimento biblico, più o meno esplicito, non è poi così iperbolica come è dimostrato da questo primo meticoloso e ponderoso volume di Giovannoli che rappresenta un unicum non solo in Italia ma anche all’estero. L’ennesima prova del nesso vitale tra le canzoni di Dylan e il testo biblico sta proprio nell’omissione che Dylan ha compiuto nel citare le sue fonti principali all’interno del discorso ufficiale per il Nobel: ha infatti menzionato la musica di Buddy Holly e poi tanta poesia, in particolare John Donne, soffermandosi su tre libri per lui fondamentali, Moby Dick, Niente di nuovo sul fronte occidentale e l’Odissea. La Bibbia non l’ha citata, proprio perché non è un “altro” libro a fianco di questi, ma molto di più, parafrasando Shakespeare (usando così un’immagine cara allo stesso Dylan): la Bibbia è «la stoffa con la quale sono fatti i suoi testi». E non solo e non tanto la Bibbia ebraica, come si potrebbe pensare data l’origine semita di Robert Allen Zimmerman, nato da Abraham e Betty a Duluth il 24 maggio 1941, ma soprattutto la Bibbia cristiana, più precisamente la King James Version, la Bibbia di Re Giacomo che, come ricorda Northrop Frye, è il Grande Codice della letteratura occidentale. Antico e Nuovo Testamento queste sono le due parti del grande codice dylaniano, un codice oggi più accessibile grazie all’opera di due seri e competenti studiosi italiani.

E Bob Dylan incontrò Cristo, di Marco Ventura

Il 17 novembre 1978 Bob Dylan è in concerto a San Diego. Qualcuno dal pubblico lancia sul palco una piccola croce d’argento. Il cantautore si china, la raccoglie, la conserva. La notte seguente, nella sua stanza in un hotel di Tucson in Arizona, Dylan si fruga in tasca. Trova quella croce; la mette al collo. E incontra Gesù. Seguono la trilogia gospel, le predicazioni del Vangelo durante i concerti, l’annuncio dell’Apocalisse in un mondo sempre più analfabeta di Dio: «Sappiamo che il mondo sarà distrutto. Lo sappiamo bene. Gesù instaurerà il suo Regno a Gerusalemme per mille anni, nel quale il leone e l’agnello giaceranno insieme. L’avevate mai sentita questa cosa? Mi piacerebbe sapere quanta gente ci crede davvero».

La conversione del futuro premio Nobel, poco meno di quarant’anni fa, è al centro della psicobiografia di Dylan pubblicata da Oxford University Press negli Stati Uniti all’inizio dell’anno e in uscita a fine mese per il mercato britannico e europeo: Light Come Shining. The Transformations of Bob Dylan («Luce che arriva splendente. Le trasformazioni di Bob Dylan»). Per l’autore, lo psicologo scrittore americano Andrew McCarron, la conversione al cristianesimo segue un copione fondamentale nella vita dell’artista, già vissuto in occasione della crisi del 1966, quella che coincise con il misterioso incidente di motocicletta, e che un decennio dopo la rinascita da cristiano si sarebbe riproposto in quel bar di San Rafael, in California, dove nel 1987 Dylan sperimentò una nuova trasfigurazione in seguito alla quale ritornò a produrre musica.Di quel copione, Andrew McCarron descrive le fasi. Una crisi esistenziale, fisica e creativa che sprofonda il cantante nel senso di un imminente pericolo, nella perdita di identità e nella paura della morte; l’aggrapparsi alla musica dell’adolescenza, ai suoni e alle parole che hanno formato il giovanissimo Robert Zimmerman (vero nome di Bob Dylan), al destino che lo ha sempre spinto verso la più autentica realizzazione di sé; e infine la rinascita e la trasformazione di un uomo che ritrova la direzione.La struttura del copione si reitera nelle tre grandi crisi ed è espressa dalle canzoni che McCarron individua come rappresentative di ciascuno dei grandi momenti di passaggio, e il cui particolare significato è documentato dalla speciale attenzione ad esse riservata dallo stesso Bob Dylan. I Shall Be Released del 1967, In the Garden del 1979 e Where Teardrops Fall del 1989 testimoniano lo smarrimento, la caduta, la paura, e poi la risalita, il ritorno alla coscienza del proprio destino, la rinascita conseguente.Se il tema religioso è decisivo nella conversione al Vangelo dell’ebreo Bob Dylan, esso è tuttavia fortemente presente anche negli altri due momenti chiave. La rinascita dopo l’incidente di moto del 1966 è, con le parole dello stesso Dylan, un’esperienza di «trasfigurazione» come quella di Gesù nel Vangelo di Matteo, il preferito dall’artista. Le tre canzoni, scrive McCarron, si richiamano l’una all’altra e narrano una storia pervasa di «ispirazione biblica» che rispecchia la stessa «frastagliata esperienza di lotta, destino e trasformazione» vissuta da Dylan. Il tema religioso è anche fondamentale nel ritorno costante alle canzoni che l’adolescente Robert ascoltava alla radio o nei giradischi portatili degli anni Cinquanta, che un Dylan più maturo descrisse come il suo «vocabolario» e il suo «libro di preghiere».In un’intervista sulla sua religiosità concessa al «New York Times» nel 1997, Bob Dylan spiegò come tutto risalisse proprio a «quelle vecchie canzoni»: «Credo nel Dio del tempo e dello spazio. Ma se davvero me lo chiedono, d’istinto mi volto indietro e penso a quelle canzoni. Credo in Hank Williams che canta I Saw the Light . Anche io ho visto la Luce». Dunque, commenta McCarron, Hank Williams e gli altri «vecchi cantanti» trasmisero certo a Bob Dylan un modo di suonare la

chitarra o una tecnica vocale, ma lo immersero anche in un mondo rurale in cui gli unici libri in casa erano la Bibbia di re Giacomo e l’ Almanacco del contadino , in una cultura americana profondamente influenzata dal risveglio evangelico ottocentesco, e gli insegnarono soprattutto come «orientarsi nel mondo».

McCarron dichiara di non volersi impegnare in una delle tante ricostruzioni enciclopediche della vita dell’icona. Non vuole essere uno dei mille dylanologi con l’ossessione del dettaglio. Usa la tecnica narrativa della psicobiografia, avvolge il lettore in una trama fittamente documentata e argomentata, per avvicinarsi all’essenza. Le trasformazioni di un Dylan proteiforme e mai statico, conclude McCarron, rispondono alla preoccupazione incessante di essere fedele al proprio destino; alla paura, espressa da Dylan stesso, di non realizzare ciò cui si è chiamati: «Quanta gente non riesce a diventare ciò che avrebbe dovuto essere. Sono tagliati fuori. Se ne vanno per un’altra strada. Succede molto spesso. Tutti conosciamo gente a cui è accaduto. Li riconosciamo per strada». A lui no, a Bob Dylan non è accaduto. «Dylan lascia intendere di non sentirsi come loro», scrive McCarron: «Egli è uno dei pochi trasfigurati».In questa luce, la conversione del 1978 non è un episodio isolato, né tanto meno l’irruzione improvvisa di una ispirazione religiosa in una vita fin lì insensibile a Dio. Non soltanto di riferimenti religiosi è disseminato il percorso artistico di Dylan, che del resto etichettò come opera pionieristica di «rock biblico» il suo primo album dopo l’incidente di moto, John Wesley Harding del 1968. Molto più significativamente, sostiene McCarron, l’elemento religioso è parte integrante del copione che accompagna le grandi cesure della vita del cantante: la perdita di scopo e di identità che lo rende vulnerabile al pericolo e alla morte, la risoluzione della crisi attraverso il recupero delle canzoni della giovinezza, la rinascita con un rinnovato senso di scopo e di sé.Il copione si rinnova nel momento della conversione, quando pesano esperienze religiose di Dylan come la frequentazione del gruppo Jews for Jesus, l’esposizione alla New Age californiana, e la stessa esperienza di discendente di ebrei fuggiti dalla persecuzione nell’originaria Lituania. Il fulcro della trasfigurazione, stavolta, è Gesù; nel cui nome Bob Dylan nasce ancora una volta. Born again Christian : «Ti svegli un giorno e sei rinato, sei divenuto un’altra persona. Se ci pensi fa paura. Accade sul piano spirituale, non su quello mentale». Non è la prima rinascita, e non sarà l’ultima, di un uomo che si è tante volte trasfigurato per essere fedele al suo destino.