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Il Signore degli Anelli (titolo originale in inglese: The Lord of the Rings) è un romanzo high fantasy epico scritto da J. R. R. Tolkien e ambientato alla fine della Terza Era dell'immaginaria Terra di Mezzo. Scritto a più riprese tra il 1937 e il 1949, fu pubblicato in tre volumi tra il 1954 e il 1955. Tradotto in trentotto lingue[2], con decine di riedizioni ciascuna, resta una delle più popolari opere letterarie del XX secolo.[3]

Il Signore degli Anelli
Titolo originaleThe Lord of the Rings
L'Unico Anello, potente oggetto magico creato da Sauron, l'antagonista del romanzo.
1ª ed. originale1955
Genereromanzo
Sottogenerehigh fantasy
Lingua originaleinglese
AmbientazioneTerra di Mezzo, 3001 - 3021 Terza Era[1]
ProtagonistiFrodo Baggins
AntagonistiSauron, Saruman
Altri personaggiAragorn, Boromir, Gollum, Éowyn, Faramir, Gandalf, Gimli, Legolas, Meriadoc Brandibuck, Peregrino Tuc, Samvise Gamgee, Théoden

La narrazione comincia dove si era interrotto un precedente romanzo di Tolkien, Lo Hobbit, e l'autore usa lo stratagemma dello pseudobiblium per collegare le due storie: entrambi i romanzi sono, nella finzione della narrazione, una trascrizione di un volume immaginario, il Libro Rosso dei Confini Occidentali, un'autobiografia scritta a quattro mani da Bilbo Baggins, protagonista de Lo Hobbit, e dal nipote e cugino Frodo, il protagonista del Signore degli Anelli. Questo secondo romanzo, tuttavia, si inserisce in un'ambientazione di più ampio respiro rispetto a quella del primo, costretto dai limiti della fiaba per bambini, attingendo a quel vasto corpus storico, mitologico e linguistico creato ed elaborato dall'autore nel corso di tutta la sua vita.

Il Signore degli Anelli narra della missione di nove Compagni, la Compagnia dell'Anello, partiti per distruggere il più potente Anello del Potere, un'arma che renderebbe invincibile il suo malvagio creatore Sauron se tornasse nelle sue mani, dandogli il potere di dominare tutta la Terra di Mezzo.

Il romanzo, composto da tre volumi, ha esercitato nel tempo un profondo influsso culturale e mediatico, ottenendo attenzioni e apprezzamenti sia da parte di critici, autori e studiosi, sia da parte di semplici appassionati, che hanno dato vita a innumerevoli gruppi e associazioni culturali, come le varie società tolkieniane sparse in tutto il mondo. La trilogia ha ispirato e continua ad ispirare libri, videogiochi, illustrazioni, fumetti, composizioni musicali, ed è stata adattata più volte per la radio, il teatro ed il cinema (come nel caso della famosa trilogia di film diretti da Peter Jackson).

L'amicizia con C.S. Lewis

tratto da [1], autrice Chiara Codecà

(Da ritoccare e riassumere per non riportare integralmente il testo, semmai fare citazioni e riferimenti)

John Ronald Reuel Tolkien e Clive Staples Lewis ("Jack" per gli amici) si conobbero a Oxford nel 1926, quando avevano rispettivamente 34 e 27 anni e non avrebbero potuto essere più diversi per origini, carattere e scelte di vita: Tolkien era sposato mentre Lewis era scapolo e orgoglioso di esserlo, il primo era cattolico e veniva da una situazione famigliare molto disagiata mentre il secondo si trovava proprio all’epoca nel pieno di una personale ricerca spirituale.

Eppure si scoprirono spiriti affini nelle scelte letterarie e soprattutto nell’importanza che entrambi davano al Mito come genere letterario: in modi diversi si trovarono entrambi a indagare la soluzione dello stesso problema, ovvero se fosse possibile rinnovare il racconto mitologico in termini moderni e offrirlo ai lettori contemporanei. Anni dopo Tolkien riassunse quest’esigenza di scrivere raccontando un commento faceto di Lewis:

«Tollers, ci sono troppo pochi racconti che ci piacciono. Temo che dovremo provare a scrivere qualcosa noi.»

("Jack" C.S. Lewis)

Tolkien non aveva un carattere facile ma con i pochi amici che considerava intimi dava il meglio di sé: gioviale, amante della buona conversazione e delle risate in compagnia, poteva passare dalla malinconia alla battuta in un momento. Lewis aveva una mente brillante e un umorismo arguto e pungente che ben compensavano l’altro.

Come già accennato, inizialmente legarono per la comune passione nei confronti della letteratura ma l’elemento fondamentale che cementò la loro amicizia fu la ricerca spirituale di Lewis e l’importanza che entrambi diedero alla religione nella loro vita: Tolkien era un cattolico convinto e seguì con molta partecipazione e affetto il cammino personale dell’amico che dopo un’infanzia protestante e una giovinezza agnostica, negli anni Venti si riavvicinò al cristianesimo. Lewis, convertitosi nel 1931, riconobbe sempre il ruolo importante svolto da Tolkien in questa scelta e trovò in lui un teologo attento e appassionato con cui poter discutere dei temi cari a entrambi. Un legame ancora più necessario per i due uomini se si ricorda che fino alla Seconda Guerra Mondiale non era facile essere cattolici nell’Inghilterra protestante.

A partire dai primi scritti giovanili, negli anni Trenta Tolkien diede forma più compiuta al nucleo delle storie del Silmarillion e dello Hobbit, mentre Lewis cominciò ad imbastire il mondo di Narnia.

Iniziarono a leggere a vicenda il frutto delle proprie fatiche, tanto che Lewis fu tra i pochissimi esterni alla famiglia di Tolkien a poter leggere gli scritti dell’amico. Dirà in seguito Tolkien in merito alla genesi del Signore degli Anelli: “Lui (Lewis, n.d.a.) l’ha ascoltato tutto, pezzettino per pezzettino, letto ad alta voce…” L’influenza che ebbero l’un sull’altro non fu tanto stilistica quanto umana, negli incoraggiamenti a non demordere di fronte all’ilarità del mondo accademico per le loro fantasie e nel continuare a credere che il mito e il racconto fantastico potessero avere uno spazio nella letteratura per adulti. Contrariamente a quanto ammiratori e biografi hanno sostenuto, tra i due non si instaurò mai una vera collaborazione attiva – cosa che, per inciso, entrambi hanno sempre negato – ma un costante supportarsi a vicenda con spunti e stimoli che nascevano anche dal confronto di stili e gusti molto diversi. Un Tolkien già anziano scrisse in una lettera: “Il debito impagabile che io ho nei suoi confronti non è tanto un’influenza come la si intende di solito, quanto il puro incoraggiamento. A lungo è stato il mio unico pubblico. Solo lui mi ha messo in testa che la mia roba poteva essere qualcosa di più di un divertimento privato.”

Mentre Lewis fu un appassionato sostenitore del Signore degli Anelli, non si può dire che Tolkien, pur apprezzando altri scritti dell’amico, ricambiasse l’entusiasmo nei conforti di Narnia, troppo lontana dal suo mondo per gusto, scelte narrative e fonti.

Purista per natura, Tolkien considerava Narnia un universo caotico dove buone idee e spunti erano soffocati da riferimenti contrastanti, opinione comprensibile se si pensa che l’ottica con cui ha affrontato il suo lavoro era molto diversa da quella del collega. Tolkien ha continuato a ritoccare i suoi libri per decenni, pulendo e sfrondando da tutto ciò che riteneva non necessario, mentre la scrittura di Lewis si nutriva anche di innovazioni subitanee e improvvisi rifacimenti: tanto Tolkien cercò di fare della sua creazione una vera mitologia moderna, basata sulla coerenza di regole inviolabili, quanto Lewis scrisse in Narnia un racconto propriamente fantastico, coltivando il gusto per l’effetto scenico, la commistione di fonti e i rimandi a tradizioni diverse. Un approccio alla scrittura che Tolkien definì “l’intrusione tipicamente lewisiana di cose che non c'entrano.”

Nonostante le differenze di vedute sulle loro opere i due continuarono a frequentarsi fino alla fine degli anni Quaranta, soprattutto perché già dal decennio precedente la loro amicizia si era allargata a includere un gruppo di altri uomini, tutti legati all’ambiente di Oxford, tutti interessati e in misura diversa coinvolti nel mondo letterario, in quel cenacolo di amici diventato noto con il nome di Inklings.

Charles Williams fra Lewis e Tolkien Charles Williams fra Lewis e Tolkien Il gruppo si unì a Lewis e Tolkien nelle serate al pub o a casa dello stesso Lewis; nel corso della serata qualcuno avrebbe tirato fuori un taccuino o un manoscritto da cui avrebbe letto poesie o racconti e, tra lodi e stroncature, avrebbero continuato in discussioni appassionate sino a notte fonda. Il progressivo allontanamento tra Tolkien e Jack iniziò quando nel circolo degli Inklings entrò Charles Williams, scrittore caro a Lewis e malvisto da Tolkien, che si risentiva dell’influenza esercitata da Williams sul vecchio amico. Tolkien si ingelosì della presenza ingombrante di Williams soprattutto perché tra loro due non scattò mai nessuna affinità, né sotto il profilo umano né sotto quello letterario.

La distanza tra Jack Lewis e Tolkien si fece enorme intorno al 1957, anno del matrimonio di Lewis con Joy Davidman Gresham. I sentimenti di Tolkien in merito al matrimonio dell’amico non sono mai stati chiariti, ma sembra che lo guardasse perlomeno con diffidenza.

C’è chi ha voluto vedere in questo atteggiamento una tensione omosessuale. In realtà, è più probabile che dipendesse in gran parte dalla gelosia dei propri affetti tipica di Tolkien, un tratto caratteriale evidente nello scrittore e probabilmente legato all’infanzia difficile. All'età di nove anni Tolkien era già orfano di entrambi i genitori, e sotto la tutela di un prete cattolico che di fatto divenne, fino al matrimonio con la moglie Edith, il suo unico riferimento famigliare. Non bisogna dimenticare, inoltre, il retaggio culturale di entrambi: le donne, poco visibili nella Oxford della prima metà del Novecento, di fatto non erano ammesse nella sfera culturale e letteraria in cui i nostri si muovevano e avevano uno spazio quasi unicamente relegato nella sfera domestica. Tolkien ha amato teneramente Edith per tutta la vita - e sul rapporto tra i due ci sarebbe molto da raccontare - ma non l’ha mai coinvolta nella creazione del suo mondo fantastico come farà poi con il figlio Chistopher: Edith è stata fonte di ispirazione, e non a caso la Luthien del Silmarillion è basata su di lei, ma mai una collaboratrice attiva.

Al contrario, sposando la letterata Joy, Lewis, che per anni aveva ignorato il mondo femminile tanto quanto l’amico, iniziò a condividere con la moglie un’affinità intellettuale che Tolkien sembrò percepire come qualcosa di alieno e poco comprensibile.

Nel 1963 C.S.Lewis morì. Lui e Tolkien non si vedevano da tempo, eppure il vecchio affetto per tutto ciò che si erano dati a vicenda rimaneva. Negli anni di lontananza Tolkien ebbe solo parole di stima e grande affetto nei conforti del vecchio collega e Lewis scrisse del legame con l’altro nel 1958, nel saggio sull’amicizia all’interno del suo libro I Quattro Amori.

tratto da [2], autrice Emanuela Pileggi

(da riassumere, fare riferimenti anziché riportare testo integrale)

Quando si parla del fantasy, è difficile non nominare uno dei padri del genere moderno: John Ronald Reuel Tolkien, autore del mondo di Arda e famoso nella cultura popolare principalmente per la trilogia de Il Signore degli Anelli. Molte meno persone conosceranno le opere e la figura di Clive Staples Lewis, autore de Le Cronache di Narnia e caro amico del suddetto Tolkien.

La loro amicizia inizia nel 1926, quando si conobbero a Oxford e scoprirono ben presto di avere una passione comune: credevano, infatti, che fosse possibile inserire i toni dei miti e delle parabole cristiane anche nei racconti moderni, dove un sentimento più secolare si era fatto strada tra i gusti del pubblico. Si resero conto come le storie più propriamente fantastiche fossero state recluse nel mondo della “letteratura per bambini”, sebbene per molti secoli non fosse stato così e decisero quindi di intervenire e dare un’accelerata allo sviluppo dell’epica fantasy.


Certo, entrambi approcciarono il problema in modo diverso, basandosi principalmente sui propri metodi e le proprie convinzioni. Tolkien, infatti, aveva un approccio molto serio e strutturato, e riuscì così a creare un universo con le sue precise regole, caratterizzandolo con una solida mitologia alla base e tracciando anche i più minimi dettagli: dalla creazione di lingue fittizie per le razze presenti nella Terra di Mezzo, allo sviluppo dei vari livelli di lettura che portavano l’opera ad essere fruibile per un pubblico molto vasto; Tolkien ha continuato a ritoccare i suoi libri per decenni, pulendo la propria opera da ciò che riteneva non necessario, e forse proprio il suo essere perfezionista e purista lo portò a approvare il lavoro dell’amico sulla saga de Le cronache di Narnia. Per Tolkien, Narnia era soltanto un universo caotico in cui si succedevano buone idee e ottimi spunti, ma anche riferimenti e richiami troppo espliciti alla cristianità.

D’altro canto è lo stesso Tolkien ad affermare quanto la vicinanza di Lewis sia stata fondamentale per la creazione del mondo della Terra di Mezzo: sebbene non si possa parlare di un’influenza stilistica, è innegabile quella umana, fatta di suggerimenti e spunti, caratterizzata da incoraggiamenti a continuare a credere che il racconto fantastico potesse avere un proprio spazio all’interno della letteratura per adulti.

L’influenza invece di Tolkien si può notare non tanto sulle opere dell’altro, quanto sul suo pensiero: Tolkien riuscì a riportare l’attenzione di Lewis sulla propria immaginazione, insegnandogli così come comunicare e trasmettere la propria fede nella scrittura fantastica e portando a compimento l’integrazione tra l’immaginazione e la mente razionale di Lewis.


Senza questa amicizia forse il fantasy non sarebbe mai riuscito a spezzare le proprie catene diventando un genere per adulti, amato e apprezzato in tutto il modo e basato sulla dicotomia razionalità e creatività.

Oltre a questo, non sappiamo dire. Esiste uno spazio privato che resta tale nonostante l’indiscrezione di appassionati e biografi. E’ stato sicuramente un rapporto profondo che ha avuto un ruolo importante nella crescita umana di entrambi e, almeno indirettamente, ha contribuito a darci il caposaldo della letteratura di genere fantastico del secolo scorso. Lasciamo le amicizie nell’ambito personale che è loro proprio e chiudiamo con le parole di Tolkien, che dopo la morte del vecchio amico parlò di lui in una lettera a terzi, concludendo: "Naturalmente potrei dire molto di più, ma non lo farò. Tuttavia vorrei che, dopo la morte di un grand’uomo, si potesse impedire di parlarne a quei piccoli uomini che non hanno, e dovrebbero rendersene conto, una conoscenza sufficiente della sua vita e del suo carattere per poter dire la verità.”

tratto dal blog di Paolo Gulisano [3]

(che riporta la recensione del suo libro di Giovanni Fighera, La Nuova Bussola quotidiana [4]) (da riassumere e fare riferimenti, per non riportare testo integrale)

Il sodalizio spirituale tra Manzoni e Rosmini, testimoniato dal ricco carteggio tra i due. La presenza di Ranieri nella vita di Leopardi, due persone «quasi all’opposto». La passeggiata insieme, il 19 settembre 1931, di Tolkien e Lewis, dopo la quale il secondo annunciò la sua conversione al cristianesimo. Sono solo alcune delle 23 storie di amicizia tra scrittori raccontate in Là dove non c’è tenebra (Ares), l’ultimo libro di Paolo Gulisano.

In Là dove non c’è tenebra. Storie di amicizie tra scrittori (Edizioni Ares) Paolo Gulisano racconta storie di amicizia particolari, perché nate all’interno di una passione comune: il mondo delle lettere, una sorta di res publica litterarum (per usare un’espressione amata nell’Umanesimo), un mondo che accomuna scrittori e poeti di ogni luogo e di ogni tempo, al di là di ogni differenza temporale e geografica.

Un grande scrittore del Novecento come C. S. Lewis sottolinea la genesi di un rapporto d’amicizia:

Quando due o più compagni scoprono di avere un’idea, un interesse o anche un gusto, che gli altri non condividono e che, fino a quel momento, ciascuno di loro considerava un suo esclusivo tesoro (o fardello).

«Vedere quello che gli altri non vedono» (Gulisano) crea una condivisione e complicità uniche. Le amicizie vere non chiudono a un unico rapporto privilegiato, ma si spalancano ad altri incontri. Nasce così una compagnia, come sottolinea Tolkien nel Signore degli anelli.

Gulisano ci trasporta nel mondo di letterati che «si sono influenzati reciprocamente, […] si sono aiutati, spesso hanno condiviso i loro destini, in alcuni casi anche tragici», tra Ottocento e Novecento, in «un tempo in cui l’amicizia è divenuta sempre più problematica».

Scopriamo così autori diversi da come il mondo della scuola sovente li presenta, perché incontriamo degli uomini in carne e ossa, con tutta la loro fragilità e il loro desiderio di bene e di fragilità. Scopriamo, però, anche figure importanti della letteratura mondiale per le quali non c’è spazio solitamente a scuola.

Ecco alcune tra le tante (ben ventitré) coppie di amici contemplate nel libro: Melville-Hawthorne, Leopardi-Ranieri, Byron-Shelley, Manzoni-Rosmini, Verne-Dumas, Wilde-Conan Doyle, Joyce-Svevo, Chesterton-Belloc, Eliot-Pound, Fitzgerald-Hemingway, Orwell-Green, Tolkien-Lewis.

La presenza di Antonio Ranieri nella vita di Leopardi fu «una risposta al suo grido disperato di non essere solo, di non soccombere alla solitudine». La loro amicizia fu «la somma di due fragilità». «Due persone profondamente diverse, quasi all’opposto, sia caratterialmente che fisicamente. Un genio non ancora compreso, assetato di felicità, ferito dalla vita, e un giovane napoletano aitante, piacione, vanitoso, estroverso, un po’ millantatore» (Gulisano).

La cura con cui Ranieri accudì Leopardi quando le sue condizioni di salute peggiorarono smentisce il fatto che avesse voluto approfittarsi della fama dell’amico più prestigioso di lui. Vero è che quando Ranieri, divenuto ormai importante, deputato e senatore del Regno, professore universitario, diede alle stampe nel 1880 il saggio biografico Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi si comportò con l’amico di quarant’anni prima in maniera poco onesta, talvolta rivelando falsità (come quella che lui, Ranieri, avesse mantenuto Leopardi negli ultimi anni) o promuovendo stereotipi sulla figura del poeta, che poi si sarebbero imposti nella visione del «Leopardi gobbo, infelice, frustrato, psicologicamente instabile che ci è stato presentato a scuola». Ma amicizie sono anche queste storie di fragilità e di tradimenti nel tempo.

Tra Manzoni e Rosmini si creò, invece, un sodalizio spirituale, testimoniato dal ricco carteggio che vi fu tra i due. Probabilmente, è il pensiero di Gulisano, il capolavoro manzoniano sarebbe stato diverso senza l’amicizia con Rosmini. I due erano accomunati dall’essere «dei cattolici non pienamente in linea con il pensiero ufficiale della Chiesa» e dal desiderio di unificazione dell’Italia. L’amicizia tra i due crebbe dopo che Manzoni convolò a seconde nozze con Teresa Borri e iniziò a trascorrere tanto tempo fuori Milano, in una villa sul Lago Maggiore ove poté vedere frequentemente l’amico Rosmini, proprio quando la sua attività letteraria era sempre più flebile, mentre il sacerdote era nel pieno dell’attività produttiva. Il rapporto si rafforzò sino alla fine quando Manzoni, assistendo Rosmini sul letto di morte, perdeva l’amico più caro che gli lasciava il suo testamento spirituale: «Adorare, tacere, gioire».


Leopardi e Manzoni, due titani della letteratura moderna, si conobbero a Firenze il 3 settembre 1827. Leopardi mostrò simpatia per l’illustre ospite autore de I promessi sposi, definendolo «pieno di amabilità e degno della sua fama», come scrive nella lettera all’editore A. F. Stella (8 settembre 1827). Tra i due non nacque, però, un rapporto di amicizia.

Diversa sorte toccò a due giganti della letteratura inglese del Novecento: Lewis e Tolkien, autori rispettivamente de Le cronache di Narnia e Il signore degli anelli.L’amicizia nacque a Oxford il 19 settembre 1931 durante una passeggiata. Tolkien conversava sui miti affermando che non sono menzogne, perché in tutti, anche in quelli pagani, è sempre contenuto qualcosa di vero. La conversazione proseguì fino alle tre del mattino. Dieci giorni più tardi Lewis annunciava in una lettera a un amico la sua conversione al cristianesimo. Nel tempo, Lewis si sarebbe convertito anche al mito e alla narrativa fiabesca e fantastica.

Lewis e Tolkien sarebbero diventati due maestri della narrativa e, nel contempo, due testimoni della fede. La loro amicizia si aprì ad altri fondamentali rapporti: Chesterton divenne per i due un punto di riferimento importante. Nacque un circolo letterario di poeti praticanti e di cristiani convinti, improntato all’unica legge dell’amicizia, ribattezzato da Lewis col nome di Inklings (persone che si dilettano a usare l’inchiostro). Il gruppo si ritrovava al pub ogni martedì sera a discutere e a leggere anticipazioni delle opere che andavano scrivendo.

Era un’amicizia che accompagnava nelle passioni della vita e al Destino ultimo dell’esistenza. Per Lewis e Tolkien

l’amicizia era stata l’esperienza di uno stupore: il riconoscere di avere in comune sogni e speranze, oltre che interessi letterari. Fecero di questo stupore il nutrimento per alimentare la loro amicizia, il loro talento artistico, la loro fede cristiana (Gulisano).

Ispirazione cristiana dell'opera

Tematiche bibliche che sottendono il racconto

Riflessione di Francesco Gnagni

Il dibattito filologico sul monumentale capolavoro di J. R. R. Tolkien, “Il Signore degli Anelli”, è senza dubbio uno dei più ampi e affascinanti della nostra epoca contemporanea. Ormai risaputamente, l’opera di Tolkien è un’opera “fondamentalmente cattolica”, e non è la critica a sostenerlo, ma lo stesso autore nelle sue lettere pubblicate postume. Ma in che senso è un’opera cattolica? Certamente non lo è solamente per la cattolicità dell’autore, o per la presenza nel racconto di riferimenti espliciti alla devozione cattolica, che non ci sono. E non lo è nemmeno per gli stessi valori morali incarnati dai personaggi della narrazione, che al massimo potrebbero presumersi in linea con un’etica vagamente cristiana.

Lo è invece, sicuramente molto di più, per la presenza della grazia che sottende l’intera vicenda della Terra di Mezzo, e per gli elementi che attraverso il cammino della Compagnia dell’Anello conducono alla verità, stavolta sì, nel senso cristiano del termine. Seppure in maniera solamente simbolica, come ogni grande maestro della letteratura è deputato a fare. Tante altre restano, però, le domande aperte, e a farci luce in quest’avventura è Ivano Sassanelli, canonista, docente presso la Facoltà Teologica Pugliese di Bari e autore di “Tolkien e il vangelo di Gollum” (Cacucci Editore, 2020, pp.550). Un libro, quello del professore Sassanelli, che “nasce quasi per ventura, da un’intuizione venuta, si potrebbe dire ‘dall’alto’, totalmente inaspettata e straordinariamente sorprendente”, come spiega in questa conversazione con Formiche.net.

Partiamo dal titolo, come nasce il “vangelo di Gollum”? Non sembrerebbe una figura associabile a un evangelista… al contrario, è una delle più incerte del racconto. Qual è il percorso che compie questo povero personaggio, molto più simile a un pipistrello – per citare l’editoriale del Direttore dell’Osservatore Romano Andrea Monda – che a un Hobbit?

Questo titolo, che all’apparenza potrebbe sembrare quasi blasfemo, deriva da una considerazione che Tolkien compie nei suoi scritti circa l’“esemplificazione”, ossia la capacità da parte di un autore di portare, in un Mondo Secondario letterario, elementi di “principi generali” del Mondo Primario reale, senza però rappresentarli in pienezza o allegorizzarli. Certo Gollum non è un evangelista ma è semplicemente una creatura, un “pipistrello” per usare le parole dello stupendo editoriale del Prof. Monda, che molto spesso ci assomiglia. E con la quale dobbiamo fare i conti: è un bugiardo, un ladro, uno spergiuro, un omicida che viene catapultato, suo malgrado, in un’avventura incredibile che lo condurrà fino alla Voragine del Fato.

Chi è Gollum, o cosa rappresenta?

Ci si è spesso domandati cosa Gollum rappresenti: il simbolo della lotta interiore tra il bene e il male? O ancora, il prototipo di uno schizofrenico o un bipolare? O, infine, la perfetta rappresentazione di un tossicodipendente? A mio avviso egli non è niente di tutto questo. Tolkien stesso dice che Gollum non è un “tipo” ma è una creatura che in date circostanze si è comportato in determinate maniere. Sméagol e Gollum non sono due parti antitetiche e contrapposte: non si può avere una visione manichea di questo personaggio. Gollum è come ognuno di noi: in continua lotta tra modi di ragionare differenti, alle volte contrastanti; pensieri confusi e che ci mettono in crisi. E proprio in questa diatriba interna fanno breccia la Pietà e la Misericordia di tanti personaggi dei racconti tolkieniani come Bilbo, Frodo, Sam e Faramir.

La sua ricerca nasce da un versetto del Vangelo di Luca (12,34): “Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore”. In effetti ricorda molto la vicenda della Compagnia dell’Anello…

Questa frase del Vangelo di Luca è esattamente la causa di quell’intuizione fugace e repentina di cui parlavo in precedenza. Stavo preparando la presentazione di un mio saggio intitolato “Cristo e la solitudine di Dio e dell’essere umano” quando mi accorsi che, parlando del giovane ricco, avevo citato questa frase di Gesù che diceva, per l’appunto, “Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore”. Immediatamente, nella mia mente sorse spontanea la domanda: “Ma se Tolkien avesse pensato a questa parole di Gesù per raccontare di Gollum?”. Questa frase mi condusse ad avventurarmi nei sentieri della Terra di Mezzo insieme agli Hobbit sulle orme di un Maestro d’eccezione, ossia J.R.R. Tolkien.

Un percorso che immagino si sia preannunciato subito lungo, quasi sconfinato….

Un percorso letterario ed esistenziale che mi ha portato ad affermare che questa espressione, così come già aveva notato Andrea Monda in un suo splendido e-book intitolato “A proposito degli hobbit”, è una delle chiavi di volta per comprendere Lo Hobbit e la figura di Gollum. Tolkien, infatti, a mio avviso ha esemplificato – o personificato – tale principio generale tanto nel viaggio dei Nani e di Bilbo verso la Montagna Solitaria quanto nel personaggio di questo vecchio Sturoi che ha perseguito e inseguito quello che egli definiva “il mio Tesssoro”, nella versione originale “my Preciousss”. Proprio in merito a quest’ultima espressione ho scritto molte pagine del mio libro, alcune anche dedicate alle riflessioni del dott. Francesco Vairano (direttore del doppiaggio di Harry Potter, Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit e voce ufficiale di Gollum e del prof. di Harry Potter Severus Piton, ndr).

Cosa ne è emerso, da questi approfondimenti?

È scaturita una mia visione molto particolare circa il modo di parlare di Gollum. Infatti, a mio avviso, il criterio secondo il quale è possibile vedere questa misera creatura, è quello della “relazione”: Tolkien ci dice che Gollum parlava al plurale non perché fosse un malato mentale, un personaggio dalla doppia personalità, ma perché egli non aveva nessun’altro con cui parlare, era solo e aveva bisogno di trovare qualcuno a cui poter dire “mio caro”, “mi sei prezioso”, “sei il mio tesoro”.

Un’interessante lettura psicologica, direi, che riporta al mondo reale.

Tolkien ha scritto i suoi racconti con finalità diverse: il suo Legendarium aveva precipuamente la funzione di dare una “mitologia all’Inghilterra”, anche se poi questo non si è mai avverato in quanto Il Silmarillion, così come pubblicato postumo da suo figlio Christopher nel 1977, si discosta dall’idea originaria di suo padre il quale, nelle ultime fasi della sua vita, stava cercando di rivedere il suo materiale mitologico alla luce dei racconti nel frattempo pubblicati. In secondo luogo Lo Hobbit, nato quasi per caso agli inizi degli anni ’30 del secolo scorso quando il Professore, impugnando una penna tra le mani, scrisse su un foglio lasciato in bianco da un suo studente, la famosa frase “In un buco nel terreno viveva uno Hobbit”, aveva portato con sé tutta la fantasia di un padre narratore di storie per i suoi figli.

Un testo inizialmente dedicato ai figli?

Un testo per bambini – si direbbe – ma che in realtà cresce mentre si svolge l’avventura di Bilbo e dei Nani guidati dallo Stregone Gandalf verso la Montagna Solitaria e culminata con la Battaglia dei Cinque Eserciti. Il Signore degli Anelli, invece, è un racconto epico a tutti gli effetti in cui gli abitanti della Terra di Mezzo (Elfi, Nani, Uomini, Hobbit, Ent, Istari) sono impegnati nella lotta contro Sauron, l’Oscuro Signore di Mordor e i suoi fedelissimi Nazgûl, gli Spettri dell’Anello. Dunque nella mente di Tolkien il percorso narrativo all’interno dei suoi racconti è stato da sempre diversificato ma allo stesso tempo complementare.

Qual è lo spirito con cui Tolkien ha scritto il romanzo, e che ruolo ha giocato San Francesco d’Assisi? Lo stesso Papa Francesco pare che sia un grande fan del Signore degli Anelli….

Il Professore compì un primo viaggio in Italia nel 1955 (il secondo risale al 1966) nel quale visitò insieme a sua figlia Priscilla, tra le varie tappe, anche Assisi. In questo viaggio, magnificamente raccontato da Oronzo Cilli nel suo testo “Tolkien e l’Italia”, il Professore stesso ha ammesso di aver avuto la sensazione “di essere giunto nel cuore della Cristianità: un esule che ritorna a casa dai confini e dalle provincie più remote, o per lo meno giunge alla casa dei suoi padri”. Questa “sensibilità e spiritualità francescana” – approfondita anche da padre Guglielmo Spirito nel suo libro “Tra San Francesco e Tolkien” – rende lo scrittore inglese ancora più contemporaneo e vicino a noi che viviamo sotto il Pontificato di un grande amante de Il Signore degli Anelli e che, per l’appunto, porta il nome di Francesco.

Tornando a Tolkien, vorrei parlare dell’epistolario uscito postumo. Quanto è stato importante per comprendere il pensiero che soggiace al capolavoro tolkieniano?

L’epistolario tolkieniano, pubblicato da Humphrey Carpenter con la supervisione di Christopher Tolkien, è uno di quei testi fondamentali per la critica tolkieniana che, però, deve essere maneggiato con cura onde evitare che ci siano frettolose sovrapposizioni tra autore e opera letteraria. Infatti bisogna sempre tener presente che le Lettere sono corrispondenza privata, non destinata alla pubblicazione, che risentono molto del rapporto mittente-destinatario e del periodo in cui esse sono state scritte. Molti dei testi dell’epistolario sono bozze, altri sono brani completi, altri ancora sono quasi veri e propri saggi nel quale il Professore spiega al suo interlocutore i suoi racconti, le sue idee e opinioni letterarie, politiche e teologiche.

Immagino abbiano ritoccato l’idea che ci si era fatti in precedenza sul romanzo.

Tutto questo chiaramente porta lo studioso da un lato a comprendere meglio e più a fondo le concezioni e l’animo dello scrittore ma, dall’altro, lo induce a essere cauto, ben consapevole che l’opera letteraria è sempre più grande rispetto alle intenzioni del suo autore. Una cosa è certa però: chi si immerge nelle Lettere di Tolkien scopre un uomo eccezionale, con una visione stupefacente del reale, una profondità di pensiero inaudita e una fede senza pari in Dio, nella Chiesa, nell’Eucarestia e nell’essere umano.

In una di queste lettere il gesuita padre Robert Murray parlò di “positiva compatibilità con l’ordine della Grazia” e paragonò Galadriel, la nobile Dama elfica della Terra di Mezzo, alla Vergine Maria. A lei tuttavia questo paragone non la convince.

La lettera n. 142 del 2 dicembre 1953 è sicuramente uno dei testi più importanti in assoluto sulla tematica religiosa in Tolkien in quanto, l’autore stesso, in essa afferma che: “Ovviamente il Signore degli Anelli è un’opera fondamentalmente religiosa e cattolica”. Su questa frase si sono scatenati i pensieri e le riflessioni dei critici tolkieniani, vedendo una strana oscillazione di opinioni tra chi afferma che l’aggettivo “religioso” in realtà significhi “spirituale”; chi sostiene la cattolicità esplicita dell’opera; chi, invece, contrapponendosi a questa tesi, ribadisce il carattere pagano del romanzo; chi dice che il racconto contiene elementi pagani e cristiani in contrasto tra loro; chi cerca soluzioni sintetiche dicendo che l’opera è cattolica proprio perché è pagana ma in armonia col cristianesimo; chi infine rintraccia nella presenza della Grazia l’essenza cattolica del racconto.

E lei, cosa pensa?

Questi tipi di approcci, seppur legittimi, a mio avviso non tengono in debito conto il testo della missiva che come lei ha ricordato è una risposta ad alcune affermazioni dell’amico gesuita Padre Robert Murray (nipote del fondatore dell’Oxford English Dictionary). Se si analizza il testo della lettera all’interno del contesto nel quale è stata scritta, si può affermare che: in primo luogo quando Tolkien sottolinea che la sua opera è “ovviamente fondamentalmente religiosa”, sta in realtà rilevando che l’affermazione del gesuita secondo cui esisteva una “positiva compatibilità con l’ordine della Grazia” è vera e che quindi natura e sovranatura, ordine della natura e ordine della Grazia sono compresenti e in armonia nel suo racconto.

Un’opera religiosa, ma anche un’opera “fondamentalmente cattolica”.

La seconda affermazione secondo cui “Il Signore degli Anelli è ovviamente un’opera fondamentalmente cattolica” fa riferimento al paragone, compiuto da Murray, tra Galadriel e la Vergine Maria. In questo caso Tolkien, in un certo qual modo, “ha corretto” l’amico gesuita invitandolo a pensare a questa relazione non in termini di allegoria ma di rapporto “fonte” (Maria) e “personaggio” (Galadriel). In altre parole lo scrittore inglese considerava la sua fede cattolica come un fiume carsico che scorreva sotto le fondamenta di Arda e che riaffiorava come fonte qualora egli avesse avuto necessità di descrivere personaggi, luoghi o avvenimenti della Terra di Mezzo. La Vergine Maria, dunque, era la fonte dalla quale egli aveva tratto tutta la sua idea di bellezza in maestà e in piccolezza ma non poteva essere confusa o sovrapposta col personaggio di Galadriel che, pur prendendo dall’immaginario mariano cattolico, non ne era un’allegoria. In sostanza, parafrasando san Bernardo di Chiaravalle, per Tolkien non valeva l’espressione: “Guarda Galadriel, invoca Maria!”.

Nella Prefazione del suo libro, il Prof. Vito Fascina senza esitazioni colloca Tolkien tra i più importanti “raccontatori cristiano-cattolici” della storia, insieme a Dante e Manzoni.

Il Prof. Vito Fascina, oltre ad essere un mio caro amico, è da sempre uno dei più acuti e attenti studiosi tolkieniani in Italia. Quasi quindici anni fa col suo testo “Alberi e Miti” ha sottolineato l’importanza della connessione tra “logopoiesi” (ossia l’invenzione dei linguaggi) e “mitopoiesi” (cioè la creazione di miti). La sua affermazione ha colto nel segno in quanto, come Dante e Manzoni, anche Tolkien, da profondo cattolico quale era, ha saputo unire nei suoi racconti fede e ragione, filologia e letteratura, filosofia e teologia e, come ha rilevato Giovanni Carmine Costabile nel suo testo “Oltre le mura del mondo”, immanenza e trascendenza. Tolkien inoltre ha avuto uno strettissimo legame con Dante derivato dalla sua appartenenza decennale alla Oxford Dante Society tra gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso.

E per quanto riguarda il rapporto di Tolkien con Manzoni?

Il tratto maggiormente caratteristico della relazione intercorrente tra Tolkien e Manzoni è, senza dubbio, l’importanza della Provvidenza: esplicitamente invocata nei Promessi Sposi, resta nascosta e silenziosamente presente ne Il Signore degli Anelli. E infatti si può affermare che in questo capolavoro della letteratura mondiale del Novecento, in ogni pagina è possibile rintracciare l’azione del “Deus absconditus”, di Eru, dell’Autore della Storia che, come direbbe Tolkien, è sempre presente anche se mai esplicitamente nominato.

Qual è il messaggio che ci lascia il Signore degli Anelli, e come valorizzarlo nell’oggi, tanto nella società contemporanea quanto persino nell’attuale crisi che stiamo vivendo?

Sam Gamgee, il fedele giardiniere e compagno di avventure di Frodo, alle porte di Mordor afferma che le storie e i grandi racconti non finiscono mai. Anche noi oggi siamo parte di quel racconto e anche noi abbiamo bisogno di un libro dai caratteri neri e rossi – ossia Il Signore degli Anelli – da poter leggere e nel quale poterci immergere per trarne linfa vitale. La letteratura fantastica, diceva Tolkien nel suo saggio “Sulle Fiabe”, non rappresenta una “fuga del disertore” ma “l’evasione del prigioniero”, ossia permette ai lettori di esplorare mondi sconosciuti, di imbarcarsi su vascelli fatti di parole e immagini che permettono alla mente di ristorarsi e al cuore di accedere a orizzonti lontani ma così profondi e arditi da far provare una gioia nuova che Tolkien ha chiamato “eucatastrofe”, ossia una buona catastrofe, una felice realizzazione dell’avventura.

Mi viene da pensare che abbiamo forse bisogno di tornare alle grandi narrazioni, per citare le tesi sul post-modernismo del filosofo marxista Jean-François Lyotard, di fronte alla frammentazione del linguaggio, all’incertezza della scienza, alla crisi del pensiero umanistico e alla caduta dei valori…

Le opere di Tolkien non sono una fuga dal mondo né, tantomeno, vogliono essere una ripresa del mondo della tradizione (esoterica, gnostica o neopagana che sia) ormai considerato perduto e di cui a tutti i costi ci si deve riappropriare in una lotta contro il mondo moderno e contemporaneo così cattivo e decaduto. Il Professore di Oxford ha solo dispiegato la sua fantasia per permettere a noi, in questo momento così difficile, di comprendere che l’amicizia, l’amore, la speranza, il rispetto reciproco, la disponibilità nei confronti di una chiamata, la Pietà, la Misericordia, il perdono, il sentirsi l’uno vicino all’altro in una Compagnia che affronta insieme le avversità, non sono parole vuote ma realtà concrete, storia vissuta in un percorso magnifico e affascinante nella via che conduce alla Terra di Mezzo.


Bibliografia

Opere di J.R.R. Tolkien e Christopher Tolkien

Studi

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  • (IT) Andrea Monda, L'Anello e la Croce, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008, pp. 252, ISBN 8849822154.
  • (IT) Paolo Gulisano, Là dove non c’è tenebra. Storie di amicizia tra scrittori, Milano, Ares, 2019, pp. 208, ISBN 9788881558780.
  • Ferdinando Castelli, Tolkien, signore della fantasia, in Civiltà Cattolica, n. 3647, 1º giugno 2002.

Riferimenti

  1. Il romanzo si serve, durante la narrazione, di un'ambientazione temporale fittizia. Solo la Prefazione dell'Autore ed alcune sezioni delle Appendici sono escluse da questo arco temporale. La storia ha inizio circa un mese prima della festa del 111º compleanno di Bilbo Baggins (22 settembre 3001 T.E.), e termina alla partenza dello stesso assieme a Frodo per Valinor (29 settembre 3021 T.E.).
  2. (EN) Frequently Asked Questions, su tolkien.hcp-uk.co.uk, HarperCollins. URL consultato il 27 agosto 2015 (archiviato dall'url originale l'8 luglio 2008).
  3. Vit Wagner, Tolkien proves he's still the king, su thestar.com, Toronto Star, 16 April 2007. URL consultato l'8 March 2011 (archiviato dall'url originale il 9 Marzo 2011).