La buona novella: differenze tra le versioni

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{{Citazione|Nessuno mi toglie dalla testa che Cristo avrebbe salvato tutti e due i ladroni che stavano sulla croce accanto a lui, sì, anche quello cattivo.|Fabrizio De André, intervista con Giampaolo Mattei}}
 
Questa lunga ballata acustica, nella quale ci sono dieci strofe ognuna dedicata a uno dei [[cathopedia:Decalogo|Dieci Comandamenti]], racconta la vita e la morte del "buon ladrone" Tito, eppure dal testo della canzonacanzone, Tito tanto "buono" non sembra. È un uomo arrabbiato, ferito, il suo modo di esprimersi è a dir poco risentito, rivendicativo. Un’ironia amara, pronta a scivolare nel sarcasmo, colora le sue parole, anche nei confronti di Dio, a cui si rivolge ricordandogli e quasi rinfacciandogli il suo Decalogo. un ladro non muore di meno». All’ottavo comandamento arriva il punto cruciale, l’accusa fondamentale: «Lo sanno a memoria il diritto divino, / e scordano sempre il perdono». È il fariseismo che Tito condanna, proprio di quegli ipocriti che predicano il rispetto formale della legge ma non praticano la misericordia. Una critica della religione che rivela però la ricerca di una fede vera, sincera, credibile. Una ricerca che non emerge esplicitamente lungo il corso della canzone ma si afferma sicuramente nel finale che, retrospettivamente, dona una luce nuova a tutto il brano.
 
È infatti nel finale che la canzone compie un salto di qualità e rende questa ballata vertiginosa e commovente: la carrellata sui dieci comandamenti dopo nove strofe si interrompe di colpo, si fermano anche le chitarre e prevale l’inconfondibile voce del cantautore, ed ecco che quasi parlando all’ascoltatore accenna nell’ultima strofa agli altri due comandamenti, quelli dell’amore che, come afferma Gesù, ricomprendono tutti gli altri della legge antica. Dopo aver sputato tutto il veleno rimasto in corpo, ecco che Tito alza lo sguardo, vince il peso della testa schiacciata sul petto a causa del supplizio e finalmente guarda oltre se stesso e vede l’altro, Gesù: «io nel vedere quest’uomo che muore, / madre, io provo dolore». Fino a quel momento era, secondo l’immagine di S.[[cathopedia:Sant'Agostino d'Ippona|Sant'Agostino]], “homo curvatus”, ripiegato su di sé, ora esce dal solipsismo e si apre all’altro e trova nell’altro un suo simile, uno nelle sue stesse condizioni, e ammette di provare per l’altro quel dolore che durante la vita aveva sempre superbamente e rabbiosamente negato.
 
Tito prova compassione, in quel momento si scopre essere umano e si scopre vivo. Egli “nasce” in quel momento, alla fine di una esistenza che solo apparentemente poteva essere definita “vita”. La sua durezza si scioglie, frana. Lo capisce lì, sulla croce, che il segreto di una vita veramente umana sta in quella cosa misteriosa, l’amore, che fino ad allora non aveva compreso («io forse ho confuso il piacere e l’amore» cantava nella sesta strofa). Lo dice chiaramente l’ultimo verso, definitivo, che riscatta tutto il suo amaro bilancio: «Nella pietà che non cede al rancore, / madre, ho imparato l’amore». E non è un caso che per due volte sia ripetuta quella parola, “madre ” (è la mamma di Tito o